In questi giorni sto vivendo sensazioni particolari. Ho comprato un carro del Far West dei Playmobil a Lorenzo, perché era malato e un regalo nuovo aiuta sempre a esorcizzare il brutto momento, soprattutto perché le prospettive erano diverse: pensavamo di festeggiare la Pasqua al mare e anche lui un po’ ci sperava.
Il carro del Far West ce l’avevo anche io, era più naïve e meno fighetto ma quello nuovo è riuscito lo stesso a farmi affiorare un sacco di ricordi di 35 anni fa circa. Ops! 35 anni fa…
Oggi i bambini hanno un rapporto completamente diverso con i loro giocattoli. Ne hanno generalmente molti di più e li ricevono anche al di fuori delle canoniche occasioni “da regalo”. Per noi bambini degli anni 70 i regali erano in arrivo solo a Natale e al compleanno, raramente alla Befana o all’onomastico (ma erano di portata minore, infinitamente minore). Generalmente c’era qualche speranza alla visita di qualche parente lontano o occasionale e in rare altre occasioni. I regali delle merendine o delle uova pasquali erano uno splendido tappabuchi e soprattutto per chi, come me, non viveva in mezzo all’oro, erano spesso un ripiego fondamentale e low cost per poter diversificare un pochetto rispetto alla routine quotidiana. Ci arrangiavamo un po’ con quello che avevamo ed è anche per questo, credo, che impazzava molto di più il pongo o il DAS, perché ci permetteva di creare giochi che non avevamo e soprattutto che forse non avremmo mai potuto avere.
Gli amici più benestanti (magari con entrambi i genitori con un lavoro) e con tanti parenti vicini potevano ambire a qualcosa di più. Io ero abbastanza fortunato, non mi posso lamentare, il miei genitori hanno sempre fatto di tutto per accontentarmi, ma hanno anche avuto la fortuna di avere un figlio con poche pretese e dall’innata capacità di giocare da solo con poco. Avevo l’incubo, in realtà, dei regali delle zie, generalmente assolutamente incompatibili con quello che volevo io e soprattutto assolutamente e drammaticamente inutilizzabili. Mi sono sempre chiesto dove li trovassero, anche perché dal mio giocattolaio di fiducia quei giochi proprio non li avevo mai visti. Siccome spesso me li portavano le zie di Milano io pensavo che a Milano i giocattoli fossero bruttissimi. E ancora lo penso un po’.
Mi ricordo un fake drammatico del Forte del Playmobil (evidentemente molto meno costoso) fatto in compensato e in altre materie tossiche. La cosa divertente è che, oltre a perdere pezzi qui e là con una certa facilità, era anche un fantastico agglomerato di schegge di legno che inesorabilmente mi si conficcavano ovunque. Io lo usavo comunque, quello c’era e con quello dovevo giocare.
Avevo tonnellate di Lego, questo sì, e anche un bel po’ di Playmobil. Anche nella versione “fake” che costavano meno e che non avevano alcun senso (oltre a essere brutti). Per non copiare troppo dagli originali generalmente riproducevano generi un po’ fuori logica per un bambino al di sotto dei 10 anni e non proprio esaltanti. Ricordo con ammirazione lo spazzino, il postino, il maestro, il pittore… Insomma, poca roba da guerra o da scontri armati, che all’epoca andavano per la maggiore. E ovviamente i regali di quel tipo, per ragioni meramente economiche, fioccavano.
Ma non tergiversiamo. All’epoca non c’erano tutti questi Playmobil, ora sono tantissimi, bellissimi e ricoprono qualsiasi mansione umana passata, presente e futura. Se non ci credete scrivete “Playmobil” su Google Images e buon divertimento. Sono veramente molto belli e curati, oltre che, ovviamente, carissimi.
Detto questo, nei gloriosi anni 70 non era evidentemente così. Ce n’erano pochi ed erano abbastanza rari. Le confezioni erano sempre più o meno quelle e visto che erano prettamente maschili (come ora del resto, con qualche variazione femminile) le opzioni erano veramente poche: i cavalieri medievali, i romani, i soldati del Far West, i pompieri, i poliziotti, qualche sceriffo e qualche indiano. La cosa che assolutamente nessuno capiva era che io non volevo averli diversi, ma averne tanti dello stesso tipo. Tanti cowboys, tanti indiani, tanti soldati nordisti e così via. Cavalli, Saloon e magari il costosissimo e ambitissimo Fort Bravo (solo fratello Maurizio lo aveva e io lo odiavo molto per questo, amichevolmente, si intende).
E invece a ogni comparsa di qualche novità mi toccava subire la diversificazione, mai voluta e spesso rischiosa, come quando un Natale arrivò Playmobil astronauta (francamente molto simile a un Abba o meglio a un Cugino di Campagna, ma si sa, eravamo nei gloriosi anni 70 e questo ci toccava). Poi arrivarono altri personaggi strani con altri edifici strani e io ovviamente, fortunello, li beccavo sempre.
In zona c’era solo un giocattolaio. Quando ho avuto la libertà di tornare da scuola da solo facevo un’ampia deviazione e andavo in venerazione davanti alle sue vetrine, generalmente dense di cose di cartoleria, ma con qualche gioco gustoso in bella vista. Molto in bella vista.
L’altro giocattolaio, davanti alla scuola Duca D’Aosta, era troppo lontano, quello di via Domodossola era il nostro, quello di zona. La nostra delizia, il nostro luogo “proibito”. Il luogo tattico dove riuscire a portare qualche zio di passaggio o qualche nonna, roba rara, ma foriera di molte speranze. Il rischio era sempre che andassero da soli e tornassero con qualcosa di ignobile, di inutile. Magari persino costoso. Uno spreco intollerabile.
Le mamme mettevano da parte qualcosa per gli oggetti veramente ambiti. Loro sapevano, ci vedevano giocare, magari non capivano, ma sapevano perfettamente distinguere tra un soldato del V cavalleggeri e un poco attraente, ma esotico, cosacco con tanto di cappello di pelo in testa.
Dal giocattolaio si andava quasi in venerazione. Un piccolo tempio per noi bambini. Spesso anche solo guardare era un premio inatteso con la speranza che quello che stavamo guardando prima o poi sarebbe finito nelle nostre manine. Assolutamente non nelle manine dei nostri compagni di scuola o amici di gioco. Capitava, ma ci potevamo far poco, se non apparire scostanti e disinteressati dopo l’evidente invito (falso) a condividere questo o quel soldatino, questo o quell’edificio.
La speranza più diffusa era che il pacchetto ambito sparito dalla vetrina fosse stato messo da parte per noi per poi carambolare magicamente sotto un albero di Natale o durante una festa di compleanno. Una volta è successo, solo una, ed era il mitico carro del Far West. E intanto noi guardavamo e imparavamo a memoria le fattezze della scatola, la composizione interna, i disegni che raffiguravano l’ambito contenuto. Non potendo toccarli spesso si diffondevano leggende metropolitane sul “vero” contenuto. Una pistola in più, un cavallo bianco, un cannone che sparava “veramente” (è vero sparavano, ma i colpi gialli sparivano tutti inghiottiti dalla casa, nel giro di pochi minuti, un mistero)
Il giocattolaio prenotava i giochi, ti permetteva di pagarli poco alla volta, con un piccolo acconto e spesso ti aiutava un po’. – So che ad Andrea piacciono i cow boys, non i gendarmi ottomani – e le zie davanti a queste frasi colme di verità spesso retrocedevano dai loro intenti dannosi. Beato giocattolaio, quante volte m’ha salvato.
Quando ha chiuso, qualche anno fa, per raggiunti limiti di età del proprietario e per evidente invasione del mercato da parte dei centri commerciali, ci sono stato male. Ho smesso di passare di lì perché venivo assalito da un’immensa tristezza. Ora la stessa vetrina ospita annunci immobiliari e i giochi della GIG, i cavalieri, i soldati e i tanti Goldrake che l’avevano popolata non ci sono più. Sono rimasti nelle menti di poveri quarantenni malinconici come me.
Anche se tutto è cambiato, io penso che siano stati momenti belli. Bellissimi. E forse mio figlio non li potrà mai vivere e assaporare davvero. E’ anche molto piccolo, ma credo che da lì lui non ci passerà. Il papà e la mamma i giochi li prendono quasi sempre su Amazon. Soprattutto il papà se li gusta prima e poi li mette nel carrello. Lo so, non è per niente la stessa cosa. Non lo è e non lo sarà mai e questo mi spiace e un po’ mi rallegra allo stesso tempo (lui ha tantissimi giocattoli, anche quelli che non ho avuto io).
Mi auguro però che mio figlio (se mai rileggerà queste mie parole tra qualche anno) sappia cosa era il fantastico mondo – povero – degli anni 70. Quando ci accontentavamo (anche perché non potevamo fare altrimenti) e quando le piccole cose ci sembravano immense e ricche solo perché erano nostre (e soprattutto non erano degli altri).